martedì 1 febbraio 2011

ELEPHANT - GUS VAN SANT


 

Elephant di Gus Van Sant racconta (dall’interno, come nessun altro) i fatti del massacro Columbine, tragico evento di cronaca passato dai telegiornali di tutto il mondo: due ragazzi entrano a scuola armati e compiono una strage, uccidendo 12 compagni, 1 professore, ferendo 24 persone ed infine suicidandosi. I dettagli dei fatti si trovano ovunque, vi sono dedicate pagine anche su Wikipedia.




La sconsiderata “impresa” dei due ragazzi è stata più volta emulata da altri studenti in diversi paesi del mondo, che ne hanno seguito l’esempio. Il film in questione è stato anche accusato di propagandare, seppure involontariamente, su vasta scala, il gesto folle.
In realtà Van Sant riesce a cogliere nella sua (eccellente) opera, tra l’altro premiata con la Palma d’oro a Cannes, alcuni aspetti fondamentali, dell’evento, altrove tralasciati: coglie un tema su cui riflettere nella rottura tra le diverse generazioni e nel forte disagio diffusamente insito nell’ultima di queste; e indirettamente si pone come una lezione (etica) sull’andare oltre dello sguardo, che dal semplice guardare improvvisamente si tramuta in cogliere, sino a penetrare in profondità le dinamiche decisive.
Per quando riguarda il primo aspetto mi limiterò a fare alcune considerazioni. Comincerò col notare che la pellicola mostra come i colpevoli abbiano agito alla luce del sole, con una preparazione meticolosa quanto lunga e palesata. I due non erano perfettamente integrati, forse avevano subito qualche episodio di bullismo. Si vede una scena uno viene colpito ed irriso dai compagni appena il professore si volta. Non sta al gioco, non ride, accusa il colpo. Ora, in tutte le scuole di qualsiasi paese si ripetono episodi di questo genere, diffusamente. Genitori, autorità scolastiche, professori, tutti sembrano fingere di non vedere. Mi interessa sottolineare una certa (ipocrita) indifferenza istituzionale. Un giro su YouTube dimostra la capillarità della diffusione degli episodi di bullismo. Basta pubblicare un atto vergognoso per illudersi di godere di un attimo di celebrità presso i propri amici.





Torniamo ai due ragazzi del film nello specifico. Si sono armati di un autentico arsenale. Ordinando online, con una facilità estrema. Ancora una volta, senza nemmeno nascondersi. Con relativa tranquillità.
La telecamera mostra questo svolgersi palese dei fatti, facendo proprio quello che non siamo educati a fare. Segue, ascolta.
E’ la tecnica narrativa che è stata altrove definita del pedinamento. Ripresa da Hitchcock, che Gus Van Sant ha puntualmente analizzato, rivisitando addirittura un classico come Psyco, in una versione a colori aderente fino all’inverosimile. Copiando.






Il pedinamento è applicato letteralmente: la camera mobile segue spesso alle spalle i diversi personaggi. Come quella di Hitchcock, incuriosce, crea da sola suspence, realizza il sogno voyeuristico di seguire gli altri nei propri segreti più recessi. O se vogliamo, nelle banalità più quotidiane.
La camera segue un personaggio, questi ne incrocia un altro, allora ecco una deviazione e si segue quest’ultimo. Alla scoperta di dettagli importanti e fatti apparentemente estranei. A ricostruire lentamente il puzzle dai tasselli perduti.
Questa la tecnica espositiva. Ma la sceneggiatura come  è  stata composta? Come si è svolta l’”indagine”? Quest’altro aspetto è altrettanto interessante: sono i ragazzi stessi che si raccontano. Van Sant li ha frequentati in rete, ha sentito tutte le loro voci, li ha lasciati parlare liberamente. Alla fine ha ricomposto tutte le testimonianze raccolte. Tanto che il risultato finale sembra autoprodotto dai ragazzi stessi, con la sola differenza che come detto l’esposizione rivela una mano maestra, radicalmente poetica nel fondere i fatti all’interpretazione. Un noto problema del Realismo / Verismo era riuscire ad aderire alla realtà rendendo invisibile il filtro autoriale. Qui il procedimento è aggirato, si distinguono le voci dall’intervento esterno, il puro documento dalla riflessione artistica, e la convivenza è notevolmente riuscita.






Molto apprezzabile è la metaforicità del movimento complessivo: come si è detto la camera segue i personaggi, lungo i corridoi della scuola. Questi si svolgono con una loro concentricità. Il movimento è dunque accerchiante, diventa anzi spiraliforme, tende verso il centro. Contemporaneamente la storia si dipana, penetra in profondità, svela motivazioni interiori prima celate. Ecco che la struttura del film è modellata dal suo stesso intento. Il procedimento è indicato già nel  titolo Elephant, (ciò che non si nota ma che è sotto gli occhi di tutti, da un proverbio buddista).
Quando ormai è troppo tardi, perché inevitabilmente i due protagonisti, hanno preparato e compiuto il piano omicida.
Si può comunque arginare in futuro il medesimo seme del male, una volta imparato a riconoscerlo. Ascoltando e guardandosi di più intorno, ci si potrebbe accorgere in tempo di un’arma nascosta o di un disagio interiore. Magari senza necessità “pedinare” ma semplicemente essendoci.
L’arte può essere pregna di significato oltre che di “pura” estetica. Anche se nella stessa estetica è di per sé impossibile per definizione scindere la forma dal contenuto. Elephant è un esempio di rara utilità sociale di un capolavoro formale.



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