lunedì 14 febbraio 2011

TERRA SANTA 415 PERFORMANCE

Terra Santa 415,  opera di Giovanni Ronzoni, consiste in una serie di installazioni e performance per non dimenticare la strage di bambini innocenti nella striscia di Gaza nel 2009. E' stata presentata in occasione della Giornata della Memoria 2011.








TERRA SANTA 415

Terra Santa 415, opera di Giovanni Ronzoni, consiste in una serie di installazioni e performance per non dimenticare la strage di bambini innocenti nella striscia di Gaza nel 2009. E' stata presentata in occasione della Giornata della Memoria 2011.





415 croci di legno immerse in un secchio di vernice, messe ad asciugare, colano come gocce di sangue sul pavimento 








numerate a mano, un numero di riconoscimento per ognuna, appese a dei ganci da macellaio, come contrappeso un sasso bianco legato con lo spago, lasciate pendere dal soffitto della fabbrica, in parte ammucchiate sul pavimento...



martedì 1 febbraio 2011

IL DESTINO DELLE CITTA'

Il Destino delle città.


Un unico fotogramma, ripreso a caso in una città. C’è una palazzina con venti tetti appuntiti, abbaini color salmone, cupole rosse e serramenti verdi / Disneyland al cubo / Davanti ad essa una casa bianca bassa con vetrocemento nasconde parte della palazzina. L’altra metà è nascosta da una villetta vagamente wrightiana, volumi e aggetti incontrollati.
Intorno piramidi, cubi, sfere, mattoni finti, mosaici extralucidi, vetro, aiuole spartitraffico, dissuasori di cemento, abbaini a profusione, balconi sporgenti.
Las Vegas, meraviglioso ed unico circo sperimentale del consumismo costruito, è clonata ed infinitamente riprodotta. Ormai è  divenuta regola, unica indiscutibile, applicabile ovunque e a tutte le scale.
E’ la Città Diffusa, invenzione del terzo millennio, che si sviluppa intorno alle autostrade in prossimità delle grandi metropoli. Città come un cavo cablato, che trasporta flussi di City Users, divoratori di shopping extraurbano, che si nutrono di centri commerciali e fast food. (chi può farne a meno?). Flussi a venti gigabyte, e più, sempre più veloci, che necessitano di enormi insegne al neon per catalizzare un’attenzione distratta.


 


 
Il cinema di Ozu, già negli anni ’50, catturava in altrettanti scanditi fotogrammi una realtà già proiettata in questa direzione. Il contesto era la Tokio industriale, contrapposta al villaggio giapponese tradizionale. Realtà rurale - realtà urbana in evoluzione, le fabbriche fagocitano il residuo dell’ormai superato, dell’ora obsoleto.
Processo indistricabile, inevitabile, irreversibile. Misteriosamente affascinante, a tratti, quando la mutazione è fantascienza accattivante alla Bladerunner. Il fascino della Grande Mela che si avvolge intorno a Central Park, il fascino granguignolesco delle luci di Tokio, persino la poesia dei gasometri di Sironi.
Ma le nostre città diffuse di oggi sono brutte, anzi orrende. Smarriscono il nostro senso dell’orientamento, sovraccaricano la vista fino a fare male. Il costruito non è bello, ma (ben più grave) non è funzionale. Si sbatte contro tutto, gli edifici non sanno che percorsi farci seguire, non sanno guidare il nostro sguardo in modo corretto, non proteggono l’intimità quando serve, inquinano. Non ci insegnano più a vivere, come un tempo accadeva nella casa che sapeva essere domestica. Costruire, abitare, pensare. Un accordo ormai slegato.
D’altra parte c’è sempre la corrente di pensiero che asseconda. La spontaneità, l’assenza di regole, l’assenza di ogni buonsenso, se il guadagno economico è rinviato. C’è la speculazione. C’è la filosofia d’avanguardia, nelle sue forme esasperate.



Rem Koolhaas



Come spiega Rem Koolhaas  “il Junkspace” (sua definizione per il contenitore della città futura)   “è la somma complessiva delle nostre attuali conquiste; abbiamo costruito più di tutte le precedenti generazioni messe insieme, ma per qualche ragione non possiamo essere misurati sulla stessa scala. […] Il Junkspace è la realtà. Lo ha elaborato il ventesimo secolo, e il prossimo secolo ne sarà l’apoteosi”. (1)
Qual è il prossimo atto scrivibile, se mai c’è ancora possibilità alcuna che non rientri nella schiavitù dell’asservimento al destino inevitabile, deciso dalla “città stessa” (per se stessa) ?
Atto scrivibile o volontà ?
Occorre un buon costruito. Occorre un’etica, prima ancora di un estetica. Una nuova (?) responsabilità che i costruttori di città si assumano, una volta per tutte. Buon costruito, si dice di un edificio che funzioni, si dice di un edificio che sappia raccontare la sua storia, come faceva una casa antica in una città antica. Buon costruito è progetto, e progetto non è costruire alla velocità della luce senza prendere fiato tra una sillaba e l’altra. E’ una questione di tempo, di attenzione, sopratutto di Volontà di non accontentarsi dell’incasso (che fine ha fatto la Passione?)
La città cessa, muore, se non ci sono Persone che la abitano. Non macchine, automi, disperati, quali siamo, che si sanno più sedere davanti a un focolare perché non ne hanno più occasione. Che sia pure la Tv, basta che sia insieme, e con attenzione. Con Partecipazione.
La chiave è Esserci, stare nelle cose che si fanno, Abitare (tutti sinonimi? davvero?).
Costruire significa Pensare.



(1) Rem Koolhas, Junkspace, Ed .Quodblet, 2006

ELEPHANT - GUS VAN SANT


 

Elephant di Gus Van Sant racconta (dall’interno, come nessun altro) i fatti del massacro Columbine, tragico evento di cronaca passato dai telegiornali di tutto il mondo: due ragazzi entrano a scuola armati e compiono una strage, uccidendo 12 compagni, 1 professore, ferendo 24 persone ed infine suicidandosi. I dettagli dei fatti si trovano ovunque, vi sono dedicate pagine anche su Wikipedia.




La sconsiderata “impresa” dei due ragazzi è stata più volta emulata da altri studenti in diversi paesi del mondo, che ne hanno seguito l’esempio. Il film in questione è stato anche accusato di propagandare, seppure involontariamente, su vasta scala, il gesto folle.
In realtà Van Sant riesce a cogliere nella sua (eccellente) opera, tra l’altro premiata con la Palma d’oro a Cannes, alcuni aspetti fondamentali, dell’evento, altrove tralasciati: coglie un tema su cui riflettere nella rottura tra le diverse generazioni e nel forte disagio diffusamente insito nell’ultima di queste; e indirettamente si pone come una lezione (etica) sull’andare oltre dello sguardo, che dal semplice guardare improvvisamente si tramuta in cogliere, sino a penetrare in profondità le dinamiche decisive.
Per quando riguarda il primo aspetto mi limiterò a fare alcune considerazioni. Comincerò col notare che la pellicola mostra come i colpevoli abbiano agito alla luce del sole, con una preparazione meticolosa quanto lunga e palesata. I due non erano perfettamente integrati, forse avevano subito qualche episodio di bullismo. Si vede una scena uno viene colpito ed irriso dai compagni appena il professore si volta. Non sta al gioco, non ride, accusa il colpo. Ora, in tutte le scuole di qualsiasi paese si ripetono episodi di questo genere, diffusamente. Genitori, autorità scolastiche, professori, tutti sembrano fingere di non vedere. Mi interessa sottolineare una certa (ipocrita) indifferenza istituzionale. Un giro su YouTube dimostra la capillarità della diffusione degli episodi di bullismo. Basta pubblicare un atto vergognoso per illudersi di godere di un attimo di celebrità presso i propri amici.





Torniamo ai due ragazzi del film nello specifico. Si sono armati di un autentico arsenale. Ordinando online, con una facilità estrema. Ancora una volta, senza nemmeno nascondersi. Con relativa tranquillità.
La telecamera mostra questo svolgersi palese dei fatti, facendo proprio quello che non siamo educati a fare. Segue, ascolta.
E’ la tecnica narrativa che è stata altrove definita del pedinamento. Ripresa da Hitchcock, che Gus Van Sant ha puntualmente analizzato, rivisitando addirittura un classico come Psyco, in una versione a colori aderente fino all’inverosimile. Copiando.






Il pedinamento è applicato letteralmente: la camera mobile segue spesso alle spalle i diversi personaggi. Come quella di Hitchcock, incuriosce, crea da sola suspence, realizza il sogno voyeuristico di seguire gli altri nei propri segreti più recessi. O se vogliamo, nelle banalità più quotidiane.
La camera segue un personaggio, questi ne incrocia un altro, allora ecco una deviazione e si segue quest’ultimo. Alla scoperta di dettagli importanti e fatti apparentemente estranei. A ricostruire lentamente il puzzle dai tasselli perduti.
Questa la tecnica espositiva. Ma la sceneggiatura come  è  stata composta? Come si è svolta l’”indagine”? Quest’altro aspetto è altrettanto interessante: sono i ragazzi stessi che si raccontano. Van Sant li ha frequentati in rete, ha sentito tutte le loro voci, li ha lasciati parlare liberamente. Alla fine ha ricomposto tutte le testimonianze raccolte. Tanto che il risultato finale sembra autoprodotto dai ragazzi stessi, con la sola differenza che come detto l’esposizione rivela una mano maestra, radicalmente poetica nel fondere i fatti all’interpretazione. Un noto problema del Realismo / Verismo era riuscire ad aderire alla realtà rendendo invisibile il filtro autoriale. Qui il procedimento è aggirato, si distinguono le voci dall’intervento esterno, il puro documento dalla riflessione artistica, e la convivenza è notevolmente riuscita.






Molto apprezzabile è la metaforicità del movimento complessivo: come si è detto la camera segue i personaggi, lungo i corridoi della scuola. Questi si svolgono con una loro concentricità. Il movimento è dunque accerchiante, diventa anzi spiraliforme, tende verso il centro. Contemporaneamente la storia si dipana, penetra in profondità, svela motivazioni interiori prima celate. Ecco che la struttura del film è modellata dal suo stesso intento. Il procedimento è indicato già nel  titolo Elephant, (ciò che non si nota ma che è sotto gli occhi di tutti, da un proverbio buddista).
Quando ormai è troppo tardi, perché inevitabilmente i due protagonisti, hanno preparato e compiuto il piano omicida.
Si può comunque arginare in futuro il medesimo seme del male, una volta imparato a riconoscerlo. Ascoltando e guardandosi di più intorno, ci si potrebbe accorgere in tempo di un’arma nascosta o di un disagio interiore. Magari senza necessità “pedinare” ma semplicemente essendoci.
L’arte può essere pregna di significato oltre che di “pura” estetica. Anche se nella stessa estetica è di per sé impossibile per definizione scindere la forma dal contenuto. Elephant è un esempio di rara utilità sociale di un capolavoro formale.



STORIA (E FINE) DI UN CAMPO ABBANDONATO


La mattina passo davanti ad una campo abbandonato. Dal finestrino vedo una striscia argillosa, che emerge attraverso una distesa di rovi, erbacce, fiori selvatici. Riconosco dei soffioni. /Freschezza, libertà/.
Là dietro c’è l’invasione del cemento, palazzine aggrovigliate senza un centro.
Ma Qui, ora, la sensazione di assaporare quella dimensione domestica ed affabile propria della campagna aperta di un tempo, quando la città era ancora circondata da questi spazi.
Spazi in cui è piacevole camminare, anche dove i sentieri si leggono a fatica.
Oggi trasformati in parchi, a volte/ anche intelligentemente, a volte/ con un minimo di interventi resi atti a garantire sicurezza e visitabilità, indiscriminata.



Da alcuni giorni al posto del campo abbandonato c’è un’enorme fossa a cielo aperto, dello stesso folgorante rosso argilloso, destinato al suo mirabolante canto del cigno, ormai giunto alla sua fine. Sorgerà qui il magazzino di una grande industria.
E’ il sistema, pare, che gira così: recalcitra ancora il consumismo capitalistico, dato per morente. Sostituiamo /prego/ il terreno incolto (e improduttivo) con una bella aiuola nel mezzo di una rotonda, così lo standard di verde urbano minimo è rispettato. Territorio usa e getta, divora gli ultimi scampoli di vita selvaggia e ribelle.
Con il pretesto che Abbandonato e Incolto non suona bene come parco Attrezzato/ questione di definizione / digressione lessicale.
Scusa buona per sostituire l’incolto con cementificazione parcheggiata e invenduta, che fa Ri- girare bene il sistema (agonizzante).
Mentalità istituzionale, specchio della INabitudine all’informale. Chi governa è parte di noi stessi, a volte.
Informale è il territorio abbandonato, privo di bellezza esteriore (forse), certamente improduttivo.

Gilles Clement

Il filosofo paesaggista Gilles Clement ha istruito il nostro sapere con una nuova (questa sì alta) definizione: terzo paesaggio.
“Terzo paesaggio, che sta a metà, ai margini, dove i boschi si diradano, lungo le strade e i fiumi, negli angoli perduti di un campo, nelle aree dismesse dall'uomo. Luoghi diversi per forma e dimensione che hanno un unico punto in comune, sono luoghi in cui trova rifugio la diversità animale e vegetale che i si auto organizza, evolve e cresce, costituendo un vero e proprio ecosistema”. (1)
Anche il pianeta dell’arte con la sensibilità che gli è propria sa cogliere il valore del perduto per sempre.



Christiane Lohr, Samenbeutel, 2009

Un esempio è dato dalle sculture leggere ed eteree di Christiane Lohr, fatte di semi e fiori, di crine di cavallo. Come muffe e licheni si appropriano delle pareti spoglie delle sale museali. Si arrampicano sui piedistalli. Impalpabili, creature spirituali. La Lohr le sue minuscole creature del bosco le preserva come in una personale Arca di Noè, in vista di una non lontana estinzione.
La non vita della pianticella estirpata è di nuovo vita e Lezione nella mente, nella cultura infiltrante, che così ne risulta riEducata.
Un’aurea di sacralità avvolge queste erbe, che ritrovano fuori dal loro habitat una collocazione degna, seppur forzatamente (storicamente) imposta. Questo in un contesto in cui la vera natura sembra destinata alla riduzione al suo simulacro virtuale, alla sola catalogazione in Wikipedia.
A ricordarci anche il Nostro posto, che ci spetta, all’interno (e non aldisopra, aprioristicamente) del nostro ECOsistema.



LT.






(1)         G. Clement, Manifesto del terzo paesaggio, Ed. Quodlibet, 2005.